Nato a Trieste da una numerosa famiglia ebraica (sua madre ebbe 16 figli, 8 dei quali vissero a Trieste). Fu mandato dal padre in un collegio a Wurtzburg, in Austria, frequentato in massima parte da figli di commercianti ebrei che vi traevano la necessaria educazione tecnica e commerciale. Di ritorno a Trieste all’età di 17 anni, si diede a frequentare circoli artistici e gli ambienti dell’irredentismo (il pittore triestino Umberto Veruda fu il suo più intimo amico) e a frequentare la Scuola Superiore di Commercio Revoltella, ma un tracollo finanziario del padre lo costrinse ad abbandonare gli studi e a impiegarsi presso la filiale triestina della viennese Banca Union in Piazza della Borsa (un’esperienza che gli avrebbe fornito l’ambientazione per il suo primo romanzo, Una Vita, pubblicato nel 1892).
Nel 1891, iniziò a insegnare corrispondenza commerciale alla Scuola Revoltella (dove Joyce, grazie al suo interessamento, avrebbe insegnato 25 anni dopo). Nel 1895 sposò la cugina Livia Veneziani, figlia di Gioachino Veneziani, proprietario di una fabbrica produttrice di una speciale vernice navale e il suo stile di vità cambiò rapidamente e così sembrarono cambiare le sue aspirazioni: dopo che, nel 1898 il suo secondo romanzo, Senilità, era andato incontro a una silente indifferenza; dopo aver abbandonato il suo modesto ma indipendente posto di lavoro alla banca per fare il suo ingresso negli affari di famiglia; dopo che, con la nascita della figlia Letizia, egli si era convertito al cattolicesimo, Ettore Schmitz appare esternamente in tutto e per tutto un uomo d’affari inteso alla prospertità e al successo della sua impresa commerciale.
A partire dal 1901, Svevo si trovò a sovrintendere l’apertura di una nuova fabbrica di vernici a Londra, dove la ditta Veneziani aveva ottenuto una grande commissione dalla marina imperiale britannica, e la necessità di recarsi per diversi anni – spesso più volte all’anno e spesso per lunghi periodi – in Inghilterra lo spinse a un maggior approfondimento della lingua inglese. L’insegnante privato di inglese cui Svevo, intorno alla metà del 1907, fu indirizzato sulla piazza triestina fu Joyce. Accomunati dagli stessi interessi letterari e da un’affine, ironica intelligenza, i due uomini diedero vita a un rapporto di amicizia intenso – anche se per molti versi ambivalente – che durò fino alla morte di Svevo.
Svevo diede a Joyce in lettura i suoi due romanzi e l’ammirazione di Joyce per Senilità ebbe un grande effetto nella riconciliazione di Svevo con la scrittura; allo stesso modo Joyce sottopose a Svevo il suo lavoro leggendogli I Morti, il racconto che conclude la raccolta dei Dubliners, e mostrandogli i primi tre capitoli del Portrait.
Ma il rapporto fra i due era troppo evidentemente sbilanciato dal punto di vista sociale – nell’ottica del tipico, consueto classismo di una società come quella triestina dell’epoca – per configurarsi come un rapporto di paritetica amicizia: Svevo può essere incluso piuttosto nel novero dei sostenitori e dei mecenati di Joyce: amici che – come il barone Ralli e il conte Sordina, per fare due esempi noti – furono spesso prodighi di appoggi, raccomandazioni e prestiti (di cui talvolta “dimenticavano” di esigere la restituzione). A Svevo Joyce fu debitore dell’indirizzo di diversi nuovi studenti, di alcuni preziosi nuovi contatti e di alcune somme di denaro; per non parlare – benché si tratti di un debito del tutto estraneo alla generosità dello scrittore triestino – dell’importanza capitale che l’origine ebraica di Svevo ebbe nell’approfondimento che Joyce compì della personalità di Leopold Bloom, il protagonista del suo Ulysses. Inoltre Svevo, il cui interesse per la psicoanalisi risaliva già agli anni 1909-10 (mercé l’esperienza “terapeutica” di suo genero, Bruno Veneziani) fu forse il primo a introdurlo a Freud. A ogni modo, l’importanza che i due grandi scrittori rivestirono l’uno nella biografia dell’altro, inquinata da un classismo che non era tanto dell’atteggiamento di Svevo quanto, come si è detto, della società, fa apparire troppo aspra e ingenerosa la tarda dichiarazione di Joyce secondo cui egli non si era mai recato alla villa di Svevo se non come servitore a pagamento.
Dopo la partenza finale di Joyce da Trieste nel 1920, i due scrittori continuarono a rimanere in contatto, e la loro relazione trovò una forma inedita nel caratterizzarsi come cordiale rapporto tra due autori affermati che si stimavano vicendevolmente e che generosamente si sforzavano di diffondere nelle rispettive cerchie le opere dell’altro: è noto il ruolo chiave che Joyce ebbe nel diffondere l’opera di Svevo in Francia (e in Gran Bretagna), così come è molto noto che Svevo accettò di buon grado di tenere delle conferenze su Joyce a Milano nel 1927.
Prima della morte di Svevo nel celebre incidente stradale di Motta di Livenza, nel 1928, il rapporto fra i due romanzieri ebbe occasione di arricchirsi di altri due significativi episodi: l’espressione della sincera ammirazione dell’irlandese per il capolavoro sveviano, La Coscienza di Zeno, e la confessione che quest’ultimo fece al triestino quando gli disse di essersi ispirato ai capelli di sua moglie Livia per dar vita alla chioma di Anna Livia Plurabelle nel suo nuovo “Work in progress”.
>> vedi anche “Italo Svevo” come studioso joyciano
>> vedi anche il sito del Museo Sveviano